sabato 8 gennaio 2011

Un abbassamento di voce

                                            



Il signor Renato Sbisani si svegliò con un tremendo mal di gola.
Aveva dormito male tutta la notte, svegliandosi di tanto in tanto per un colpo di tosse. Adesso aveva un gran bruciore; tentò di chiamare la signora Pina, sua moglie, ma non riuscì a produrre che un cupo borbottio.
La signora era però sull’avviso e appena lo sentì muovere si affacciò in camera: - come stai Renato? Questa notte ti sei agitato tanto; hai la febbre? -.
-       Grr… ml.. di gola, aahrg… – articolò lui faticosamente.
-       Resta a letto, ti porto il caffè – fece la signora Pina e se ne andò ciabattando in cucina.
Renato intanto si chiedeva dove aveva potuto prendere quel malanno. Forse ieri sera in palestra: l’acqua della doccia era quasi fredda.
Infatti, un paio di volte la settimana, dopo l’ufficio, si ostinava a sgambettare sul tapis roulant e a sollevare manubri appesantiti da un istruttore probabilmente sadico e sicuramente gay, per mantenere, anche a 45 anni il suo proverbiale fisico tonico e scattante.
Ma non si divertiva più da un pezzo. Ogni volta era in cerca di pretesti per saltare la sessione. Pensava che ormai poteva anche concedersi qualche chilo e qualche piatto di pastasciutta in più. Alla faccia della dieta a zona.
Arrivò la moglie con il caffè.
Ne bevve una sorsata: piombo fuso! Gettò un grido inarticolato e spruzzò di caffè lenzuola e coperte.
La signora Pina gli mise una mano sulla fronte: era calda ma non scottava. – Cosa pensi di fare? – chiese.
Dopo qualche borbottio e alcuni colpi di tosse, Renato riuscì a mormorare sottovoce: - Telefona in ufficio e dì che sto male. Poi vediamo. Intanto mi alzo perché a letto non resisto più.-
- Senti – disse la Pina – perché non vai dal medico che sta al piano di sopra e ti fai dare qualcosa? In fondo siamo vicini di casa. Poi la moglie è tanto gentile: mi sorride sempre quando ci incontriamo e facciamo lunghe chiacchierate aspettando l’ascensore.-
Renato aveva ben presente il dottor Rosini del piano di sopra. Un piccoletto mezzo pelato, con il riporto e con la pancetta. Camminava tronfio come un tacchino, non salutava mai per primo e ricambiava con aria di degnazione.
Insomma: uno stronzo presuntuoso.
Questa, però, poteva essere l’occasione per vedere  in concreto di che pasta era fatto il famoso dottore.
Si diede una rinfrescata, si sbarbò, si cosparse di dopobarba e deodorante, indossò sul pigiama una sontuosa vestaglia rossa, regalo della suocera, e si accinse a salire al piano di sopra.
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La signora Mimosa Franchetti, maritata Rosini, chiuse la porta alle spalle del marito con una sensazione di sollievo e liberazione.
Era giovedì e quindi la filippina quel giorno non sarebbe venuta.
Una giornata di assoluta libertà. Che pace!
Si preparò un caffè e  sedette al tavolo del tinello per sorbirselo con comodo. Si accese anche una sigaretta.
Doveva ricordarsi di far sparire il mozzicone prima del ritorno del marito, se no chissà che lagna! Non c’è peggior rompiscatole di un fumatore pentito. Fra l’altro lui, quando fumava, era un disastro: cenere dappertutto, cicche nei posti più impensati, compresi i piatti sporchi, la puzza di fumo freddo che ristagnava nel soggiorno. Una volta aveva fatto anche un buco in un tappeto.
La signora Mimosa ripensò ai suoi 23 anni di vita coniugale. Quando aveva sposato il quasi specializzato dottor Rosini era una piacente e corteggiata studentessa ventenne. Le nozze erano state predisposte in fretta e furia per evitare di recarsi all’altare con una pancia troppo evidente. Subito dopo, però aveva perso il bambino e non ne aveva potuti avere più. Di laurearsi neanche e parlarne.
Dopo i primi anni, il ménage era andato avanti sempre più stancamente. Man mano che la clientela del dottore aumentava, il suo interesse per la moglie diminuiva.
Con la clientela aumentava anche la pancia e la boria del dottore, il quale ostentava sempre di più un’aria affaccendata e sbrigativa, da efficiente professionista. Secondo lui.
Piuttosto ridicola, secondo lei.
- Come se non sapessi che ogni tanto si sbatte quelle carampane delle sue pazienti – si disse la signora Mimosa. – Quelle gli si spogliano davanti anche se hanno un’unghia incarnita! Che ci troveranno poi. E mi sa che se la fa anche con quella sciacquetta dell’infermiera: cosa è andato a fare in ambulatorio alle 8 se le visite cominciano alle 9 e mezza? E con me fa pure il geloso!  Per me faccia pure, visto l’entusiasmo che ci mette quelle rare volte! Basta che sia discreto e non mi faccia fare la figura della scema. -.
-Per lui il mio ruolo – proseguì nel suo soliloquio – è quello di fargli da governante e di accompagnarlo alle noiosissime cene con i colleghi, con la raccomandazione di vestirmi elegante e di tenere la bocca chiusa. Figurarsi, in quell’assemblea di raffinati e di geni! Ma una volta o l’altra vedrà che scherzo gli combino -.
A quel punto delle sue riflessioni suonarono alla porta.
La signora Mimosa infilò le pantofole che, in un empito di trasgressione, aveva tolto per dare sollievo alle estremità. Lisciò la vestaglia sui fianchi assicurandosi che fosse ben chiusa; si ravviò i capelli e andò ad aprire.
Sul pianerottolo c’era il fustaccio abbronzato del piano di sotto, anche lui in vestaglia, con un foulard di seta al collo, tutto profumato.
Il signor Renato Sbisani, la guardò con un’aria strana e sussurrò con un filo di voce: - buon giorno, signora, c’è suo marito?-.
E lei, dopo un attimo di esitazione e uno sguardo circolare al pianerottolo deserto, rispose con lo stesso tono di voce circospetto: - No, è appena uscito. Venga, venga!-.

Roma, 18 novembre 2010