sabato 8 gennaio 2011
Un abbassamento di voce
sabato 27 novembre 2010
Il dollaro, lo yuan e il resto del mondo
I summit economici internazionali si caratterizzano sempre di più come confronti più o meno garbati fra i paesi sviluppati, che faticano a mantenere il proprio ruolo e le conseguenti posizioni di potere, e quelli emergenti, il cui peso nell’economia mondiale continua a crescere. Ne è oggettiva dimostrazione la recente proposta di modifica degli assetti in seno al Fondo Monetario Internazionale, nel board del quale i paesi emergenti acquisteranno più peso a spese dell’Europa, che perde due consiglieri, mentre gli Stati Uniti perderanno il diritto di veto.
Per quanto concerne il G 20 che si è tenuto gli scorsi 11 e 12 novembre a Seul, si è assistito a un inedito – e impensabile fino a qualche anno fa – atto di accusa nei confronti degli USA da parte degli altri paesi: Cina, Giappone, Brasile, India e Corea.
È stata criticata la recente decisione della Federal Reserve di immettere sui mercati liquidità per 600 miliardi di dollari mediante una seconda operazione di riacquisto di titoli di stato: “quantitative easing 2” (Qe2). Secondo gli USA, tale politica espansiva è volta a favorire gli investimenti produttivi e con essi l’occupazione; ma mentre questi benefici dipendono anche (anzi soprattutto) da altri fattori, sicuramente l’effetto immediato sarà quello di deprezzare ulteriormente il dollaro. Diminuirà così il valore reale del debito americano, in gran parte posseduto da altri stati sovrani, prima fra tutti la Cina; risulteranno anche più competitivi i prezzi delle merci americane sui mercati internazionali. Inoltre, essendo il dollaro la principale valuta di riserva, le autonome decisioni della FED pongono problemi “esogeni” di politica monetaria anche ad altri paesi europei e non.
Gli Stati Uniti, dal canto loro, lamentano che la Cina mantenga artificialmente basso il tasso di cambio della propria moneta, accrescendo così il vantaggio competitivo dei suoi prodotti.
I problemi essenziali dell’economia mondiale sono costituiti fondamentalmente dagli squilibri monetari e commerciali tra i diversi paesi. Cina e Germania e altri paesi cosiddetti emergenti hanno un forte avanzo della bilancia commerciale, altri - USA in testa - hanno invece necessità di rilanciare le rispettive economie indirizzando verso i propri prodotti la domanda interna e soprattutto quella estera. Il G 20 di Seul, come c’era da aspettarsi, si è concluso con un sostanziale nulla di fatto su questi temi; ne consegue che la cosiddetta “guerra delle valute” è tutt’altro che conclusa. Quindi, se da un lato gli USA persisteranno nella politica di deprezzamento del dollaro, gli altri paesi sono ben determinati a non subire passivamente l’iniziativa americana: essi, ove possibile, adotteranno le necessarie contromisure, con il risultato che i valori relativi delle diverse valute finiranno con il riequilibrarsi, avendo nel contempo riversato altra liquidità sui mercati finanziari internazionali, creando le premesse per un’altra bolla speculativa.
Proprio per cercare di fronteggiare eventi di questo genere, il G 20 ha approvato le nuove norme, messe a punto dal Financial Stability Board, volte ad assicurare una maggiore solidità del sistema bancario grazie a più rigorosi requisiti di capitalizzazione.
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Nella contesa fra USA e Cina, l’Europa si trova non solo a svolgere il ruolo di spettatore emarginato e passivo ma, a causa delle sue divisioni, sta diventando terreno di caccia per la speculazione finanziaria internazionale.
Fa eccezione la sola Germania che esibisce una crescita economica di tutto rilievo e un ampio attivo della bilancia commerciale. La competitività internazionale delle merci tedesche deriva solo in parte dalle quotazioni dell’euro; essa si deve all’efficienza acquisita da quel sistema–paese, che si caratterizza per l’elevata produttività del lavoro e la modesta crescita del costo nominale di un’ora lavorata.(1)
Questa situazione fa sì che la Germania consolidi il suo ruolo di paese leader dell’eurozona e che la Cancelliera Angela Merkel possa dettare le condizioni per l’erogazione degli aiuti ai paesi in difficoltà; possa proporre la revisione in senso più rigoroso del patto di stabilità e possa, infine, invocare misure volte a far ricadere sulle banche che hanno speculato sui debiti sovrani, gli oneri delle conseguenti crisi finanziarie. Ma mentre la revisione del patto di stabilità e la disciplina del settore finanziario sono ancora da definire, di fronte a situazioni di emergenza, quali quelle della Grecia e ora dell’Irlanda, l’unica condizione di fatto posta per erogare gli aiuti è quella di esigere una politica di rigore. L’impegno richiesto per il risanamento dei conti pubblici a quei paesi che hanno alti deficit e volumi di debito elevati costringeranno quei governi a stringere i cordoni della borsa, praticando tagli sempre più incisivi alla spesa pubblica, vale a dire a stipendi, pensioni e servizi sociali, con la conseguenza che, in definitiva, gli oneri che ne deriveranno finiranno con il ricadere sulle spalle dei cittadini, specie su quelli appartenenti alle fasce più deboli. Il che, inoltre, ha l’effetto di soffocare i timidi segnali di ripresa che si vanno manifestando.
Le recenti traversie dell’Irlanda hanno posto in risalto, ancora una volta, il problema strutturale dell’eurozona: a fronte di una gestione monetaria unica la politica economica è responsabilità dei singoli governi. Ne consegue, tra l’altro, che quando si tratta di prestare soccorso a un paese in difficoltà occorrono faticose trattative e complicati accordi. L’Unione Europea appare incapace di mettere in campo tempestivi interventi di sostegno a favore di singoli paesi; questi, nel frattempo, sono costretti a collocare i propri prestiti a tassi sempre più elevati, con la conseguenza di appesantire ancor di più i rispettivi bilanci
Nel caso dell’Irlanda, a differenza di quanto avvenne per la Grecia, la Germania si è dimostrata particolarmente sollecita: non per altruismo, ma perché le banche tedesche sono pesantemente esposte verso quelle irlandesi, un tracollo di queste ultime avrebbe per la Germania conseguenze assai gravi. Di qui gli accorati e allarmati appelli della Cancelliera Merkel, che deve convincere soprattutto i contribuenti tedeschi a sopportare gli oneri conseguenti.
All’Irlanda è richiesto un rigoroso programma di risanamento dei conti pubblici e quindi “lacrime e sangue” per quei cittadini. Quel governo si è impegnato ad operare incisivi tagli allo stato sociale per ottenere dall’Europa un prestito di 85 miliardi, dei quali ben 35 andranno per il salvataggio delle banche; non sarà, peraltro, aumentata la modestissima aliquota del 12,50% sul reddito delle imprese, che è stata la chiave dei successi economici degli anni ’90, per timore di allontanare le multinazionali che da quella aliquota sono state attratte.
In sostanza l’Europa (leggi: Germania) ha imposto una via per il risanamento che anziché far leva sul sostegno della domanda interna, sosterrà banche e imprese. Nell’interesse di quel paese e dell’eurozona in generale ci auguriamo che la scelta sia vincente, altrimenti i sacrifici (non certo delle banche né delle imprese) saranno stati inutili.
Ma la speculazione internazionale, più che alle intenzioni, guarda alla situazione finanziaria dei singoli stati e, in particolare, all’entità dei loro deficit. È di questi giorni l’allarme lanciato dal Presidente dell’Unione Europea Van Rompuy, il quale in un recente intervento ha detto: “Siamo di fronte a una crisi per la nostra sopravvivenza. Dobbiamo lavorare tutti insieme per permettere alla zona euro di sopravvivere. Infatti, se l'euro non sopravvive, neanche l'Unione europea sopravvive". Ma ha aggiunto: "Ho fiducia che supereremo questo momento". (2) Buon per lui.
26 novembre 2010
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(1) In proposito vale la pena di riportare alcuni dati di recente riferiti dal Governatore Draghi in occasione di un convegno: “Tra il 1998 e il 2008 […] il costo del lavoro per unità di prodotto nel settore privato è aumentato del 24 per cento in Italia, del 15 in Francia; è addirittura diminuito in Germania. […] Questi divari riflettono soprattutto i diversi andamenti della produttività del lavoro: in quel decennio […] la produttività è aumentata del 22 per cento in Germania, del 18 in Francia, solo del 3 in Italia”. (Crescita, benessere e compiti dell’economia politica, Lezione Magistrale del Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, Ancona 5 novembre 2010).
(2) La Repubblica del 16.11 2010
giovedì 28 ottobre 2010
TESTAMENTO POLITICO DI GIUSEPPE GARIBALDI
Ai miei figli, ai miei amici, ed a quanti dividono le mie
opinioni, io lego:
l'amore mio per la libertà e per il vero; il mio odio per la
menzogna e la tirannide.
Siccome negli ultimi momenti della creatura umana, il
prete, profittando dello stato spossato in cui si trova il
moribondo e della confusione che sovente vi succede,
s'inoltra e mettendo in opera ogni turpe stratagemma,
propaga con l'impostura in cui è maestro, che il defunto
compi, pentendosi delle sue credenze passate, ai doveri di
cattolico.
In conseguenza io dichiaro, che trovandomi in piena
ragione oggi, non voglio accettare in nessun tempo il
ministero odioso, disprezzevole e scellerato d'un prete, che
considero atroce nemico del genere umano e dell'Italia in
particolare.
E che solo in istato di pazzia o di ben crassa ignoranza, io
credo possa un individuo raccomandarsi ad un discendente
giovedì 11 marzo 2010
La Grecia, l'euro e i maghi della finanza
I problemi che affliggono le pubbliche finanze della Grecia pongono all'eurosistema una sfida ardua, importante e soprattutto nuova: è ipotizzabile una crisi di insolvenza e la conseguente uscita di un paese dalla moneta unica? Possono avere successo, in una situazione del genere, gli attacchi speculativi della finanza internazionale (non paga di aver scatenato la crisi del 2008) contro l'euro? Perdere questa sfida significherebbe mettere in discussione l'intera costruzione dell'unione monetaria.
A seguito della riunione dei massimi esponenti della Comunità e della BCE tenutasi lo scorso 11 febbraio a Bruxelles , sono state rilasciate perentorie dichiarazioni volte ad assicurare che l'Unione europea e le sue istituzioni sono determinate a difendere la stabilità finanziaria. È stato manifestato pieno sostegno alla Grecia, la quale non avrebbe richiesto aiuti concreti né all'Europa né, tanto meno, al Fondo Monetario ma si è invece impegnata ad attuare rigorose misure di risanamento. Su tale percorso virtuoso vigileranno la Commissione e la BCE. Francia e Germania "mano nella mano" hanno comunque assicurato che, all'occorrenza, i paesi dell'eurozona sono pronti ad assumere concrete misure di sostegno in favore della Grecia; misure che peraltro non sono state neanche genericamente indicate perché, come ha precisato il presidente Sarkozy, "il nostro ruolo non è quello di favorire la speculazione".
Il compito assegnato alla Grecia è impegnativo, tuttavia la scelta delle autorità dell'Unione di non ipotizzare, almeno per ora, concreti interventi di sostegno è assai opportuna sotto diversi aspetti: ha evitato, anzitutto – come ha osservato il presidente francese – che la speculazione possa valutare e tempestivamente contrastare le misure decise; ha anche ottenuto l'effetto di impegnare l'autonoma responsabilità del governo greco a "correggere quello che è stato fatto in passato e che era incompatibile" con le regole dell'euro: la politica fiscale greca del passato "non era tollerabile e non avrebbe dovuto essere tollerata". La decisione assunta, inoltre, deve servire anche come monito agli altri paesi in difficoltà – gli altri del gruppo denominato PIGS oppure PIIGS includendovi anche l'Italia – i quali non debbono illudersi di poter contare sull'automatico aiuto della Comunità per fronteggiare le rispettive difficoltà se non in casi estremi e comunque dopo aver messo in campo ogni possibile autonoma iniziativa per rimettere in ordine i conti pubblici.
Sarà quindi di cruciale interesse valutare la concreta efficacia di questa linea di intervento per assicurare la tenuta dell'euro e per scongiurare il cosiddetto "effetto domino" nel caso in cui un paese dell'eurozona versi in gravi difficoltà economiche, tali da poter coinvolgere anche altre economie del sistema.
Sta di fatto, comunque, che per porre rimedio a situazioni di crisi quali quella che travaglia la Grecia, la via autorevolmente indicata, quella che può dare risultati più immediati, consiste nell'intervenire con robusti tagli alla spesa pubblica, e quindi necessariamente a stipendi dei pubblici dipendenti e pensioni; ne risulterà un'ulteriore flessione della domanda interna in un contesto di crisi economica mondiale che non si può ancora considerare superata. Una rimodulazione del carico fiscale, per operare dal lato delle entrate, produrrebbe effetti più incerti e meno tempestivi. È quindi prevedibile, per la popolazione greca, un difficile periodo di ristrettezze.
La manualistica economica, peraltro, suggerisce che per invertire la fase negativa del ciclo è opportuna una redistribuzione del reddito fra consumi e risparmio a favore dei primi. Il che si ottiene mettendo le categorie a più basso reddito in condizione di mantenere inalterati i propri consumi mentre coloro che hanno redditi più elevati possono vedere ridotte le loro entrate senza che il livello di spesa per consumi ne risenta apprezzabilmente. Purtroppo il compito di elaborare in concreto le specifiche misure anticrisi ben di rado è attribuito ad esponenti della prima categoria.
Per fronteggiare la crisi finanziaria mondiale, e in particolare per evitare il default di quelle banche d'affari troppo grandi per fallire (TBTF) – a parte, chissà perché, Lehman Brothers –, si è fatto ampio ricorso nei paesi più esposti, Stati Uniti in testa, a cospicui finanziamenti con soldi pubblici, cioè dei contribuenti. Il fatto di aver in tal modo sottratto risorse all'economia reale ha provocato gravi conseguenze sulla produzione industriale e, di riflesso, sull'occupazione. Anche altri paesi meno direttamente coinvolti nella tempesta finanziaria, quale il nostro, hanno risentito pesantemente del crollo della domanda mondiale con conseguente deterioramento della situazione interna, attestato dalla discesa di tutti gli indicatori economici.
Per l'Italia, in particolare, il 2009 ha fatto registrare una flessione del PIL del 4,9%, della produzione industriale del 17,4%, delle esportazioni del 20,7% e via dicendo. Il tasso di disoccupazione nell'eurozona supera il 10%.
Quanto sopra dimostra che l'impatto negativo delle crisi e l'onere delle manovre per superarle si scarica in ogni caso sulle categorie più deboli. Un criterio fondamentale – considerato, a parole, quasi un'ovvietà – di ogni sistema tributario è quello della progressività: "tutti debbono concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva" . Analogo criterio non sembra però valere per la ripartizione dei costi delle crisi: di quanto dovrebbe ridursi il reddito di un top manager pubblico o privato per comportare un sacrificio corrispondente a quello di un cassintegrato che vede ridursi il suo salario da 1.200 a 800 euro mensili, quando va bene? Si ha invece notizia di alti dirigenti bancari i quali hanno ripreso a introitare cospicui bonus per aver bene operato.
Ma per tornare al caso della Grecia, c'è un'ulteriore osservazione da fare: da notizie di stampa si apprende che i maghi della finanza - così solerti nel sollecitare misure in loro favore per evitare che le loro insolvenze possano aggravare la crisi da loro stessi provocata - sembra che abbiano dato anche un significativo contributo all'insorgere delle difficoltà di quel paese; il New York Times ipotizza infatti che due grandi banche d'affari americane, con strumenti finanziari particolarmente sofisticati, abbiano aiutato la Grecia a nascondere la reale entità del suo debito pubblico, spingendo così quel paese nella condizione di crisi in cui ora si trova.
Ci auguriamo di tutto cuore che la strategia scelta dai responsabili in difesa della solidità dell'eurosistema abbia successo; ma con l'occasione, a costo di apparire del tutto fuori moda, ci si consenta di rammentare un passo di un vecchio testo dell'800: "La moderna società borghese... non ha eliminato i contrasti fra le classi. Essa ha soltanto posto nuove classi, nuove condizioni di oppressione... in luogo di quelle antiche".
15 febbraio 2010